Come smettere di fumare con il counseling e la strategia delle 5 A

Fumare tabacco resta una delle principali cause di morte al mondo. Quali sono le sostanze che fanno più male all’organismo e quali vantaggi dà smettere di fumare?

I fumatori nel mondo sono un miliardo e trecento milioni (dei quali l’80% vive in Paesi a basso e medio reddito). Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, il fumo di tabacco causa il decesso di quasi la metà della popolazione che ne fa uso ed è responsabile ogni anno della morte di otto milioni di persone. Di queste, 7 milioni muoiono a causa del consumo diretto di tabacco, mentre la parte restante si tratta di non fumatori esposti al fumo passivo. Per quanto riguarda il nostro Paese, si calcola che in Italia i fumatori siano il 24,2% della popolazione totale (il dato più alto dal 2006). Ma perché i numeri relativi ai decessi da fumo sono così alti nonostante le tante evidenze scientifiche che hanno provato i danni causati dal tabacco?
Quali sono le sostanze che fanno più male all’organismo e quali vantaggi dà smettere di fumare?
Le principali sostanze presenti nella sigaretta
Nelle sigarette sono presenti diverse sostanze che, se assunte per troppo tempo e con continuità, possono far molto male alla salute. Vediamo le principali:
•Nicotina: Nistrosammine Specifiche del Tabacco (NTS),
•Idrocarburi Policiclici Aromatici (IPA): Benzopirene, Antracene, Naftalene ecc.,
•Ammine Aromatiche: Naftalina, Aminobifenile, Naftilammina,
•Metalli: Cromo, Selenio, Nichel, Arsenico, Piombo,
•Monossido di carbonio: Asfissiante e inquinante, riduce l’ossigenazione dell’organismo e dei tessuti,
minando la resistenza fisica
•Catrame: Residuo del fumo ottenuto per allontanamento dell’acqua e della Nicotina. Si deposita sui bronchi, costituendo la causa principale dei tumori legati al tabacco.
I vantaggi di smettere di fumare
Di seguito i principali benefici dello smettere di fumare a seconda del periodo di astinenza:
•8 ore: l’ossigeno nel sangue torna a valori normali;
•12 ore: quasi tutta la nicotina è stata metabolizzata;
•24 ore: i livelli di monossido di carbonio sono fortemente ridotti;
•2-5 giorni: olfatto e gusto migliorano;
•3 giorni: aumenta la capacità polmonare;
•1 settimana: ci si accorge di avere più fiato, energia e voglia di fare;
•3 settimane: si è più attivi, il lavoro e le varie attività risultano più facili;
•4 settimane: migliora l’attività sessuale;
•6 settimane: si riduce il rischio di infezioni;
•3 mesi: la tosse cronica inizia a ridursi;
•3-6 mesi: un terzo della popolazione che è aumentata di peso torna alla normalità;
•3-9 mesi: la funzione polmonare aumenta del 20-30%;
•1 anno: il rischio di infarto connesso al fumo si riduce del 50%;
•5 anni: il rischio di eventi coronarici è uguale ai non fumatori;
•10 anni: il rischio di cancro polmonare si è ridotto del 30-50%;
•10-15 anni: il rischio di morte per tutte le cause è simile ai non fumatori.
Chi smette di fumare, inoltre, a 30 anni guadagna almeno 10 anni di vita attesa, a 40 ne guadagna 9, a 50 si passa a 6 e a 60 guadagna altri 3 anni di vita attesa.
Ausili descritti in letteratura per smettere di fumare
Se smettere di fumare fosse facile, i dati sulla mortalità per patologie legate al fumo non sarebbero così alti.
Spesso la volontà da sola non basta ed è per questo che esistono diversi ausili i cui benefici sono descritti nella letteratura scientifica: Nicotine Replacement Therapy (cerotti, gomme da masticare, compresse, inalatori, spray orali o nasali che rilasciano nicotina a velocità e concentrazioni differenti); Vareniclina e
Bupropione (farmaci che agiscono a livello centrale per ridurre la dipendenza da nicotina); sigarette elettroniche con nicotina e senza nicotina (è possibile acquistare ricariche a concentrazioni variabili di nicotina, anche pari a zero); terapia comportamentale e counseling.
Il counseling sanitario
Prima di tutto, cosa si intende con la parola “counseling”? Il counseling è un’attività di aiuto professionale che può risultare fondamentale per affrontare un particolare momento di vita in ogni tipo di ambito.
Attraverso tale attività chi ne usufruisce può capire come fare per contrastare le difficoltà e migliorare le proprie condizioni di vita. Il “counselor”, ovvero il professionista che segue il cliente, ha come compito quello di aiutarlo a sfruttare (o far emergere) le sue potenzialità e superare eventuali “blocchi” che lo
condizionano. Se ci limitiamo al solo ambito sanitario, dunque, il counseling ha come obiettivo quello di far affrontare al paziente i suoi disturbi (o, come nel caso del fumo, dipendenze) in maniera attiva e agevolare un’evoluzione positiva dei comportamenti che mettono a repentaglio il suo stato di salute. Restando
sempre in ambito sanitario, il counselor può risultare molto utile nella prevenzione e nella promozione di comportamenti corretti e salutari e nel supporto ai pazienti nel corso della malattia.

La strategia delle 5 A
Per quanto riguarda il counseling sanitario applicato alla cessazione del fumo, le principali linee guida raccomandano che gli interventi siano organizzati intorno a una struttura conosciuta come le 5 A: Ask, Advise, Assess, Assist, Arrange.
La prima attività (Ask) consiste nel domandare ai pazienti che si presentano in ambulatorio se sono fumatori; affrontare l’argomento con tutti, indipendentemente dalla natura della visita; registrare la condizione e la storia di fumatore tra i dati del paziente; rinforzare la scelta di chi ha smesso di fumare ed evidenziane i vantaggi; utilizzare il test di Fagerstrom per valutare il grado di dipendenza da nicotina.
L’attività denominata Advise consiste invece nel raccomandare a tutti i fumatori di smettere di fumare; dare al soggetto materiale di supporto, come opuscoli o manuali; fare in modo che il soggetto percepisca il professionista come alleato; evitare conflitti di qualsiasi tipo (psicologici o verbali); aiutarlo a trovare le
giuste e personali motivazioni per smettere; accettare di parlare anche degli aspetti piacevoli del fumare; far osservare i vantaggi estetici, economici e affettivi; Sottolineare che cessare di fumare può aiutare a prevenire malattie gravi.
Passando poi all’attività chiamata Assess, è necessario accertarsi che il soggetto voglia effettivamente smettere; nel caso in cui non fosse intenzionato a farlo, dedicargli del tempo per invogliarlo a smettere; se invece ha intenzione di smettere, approfittarne per fornirgli consigli comportamentali e proporgli di tornare entro 2 settimane.
Prima di arrivare all’Arrange (ovvero la pianificazione vera e propria del follow up), si deve passare per la fase Assist, che consiste nel concordare con il soggetto una strategia per aiutarlo a smettere; insegnare a riconoscere i sintomi da astinenza nicotinica; proporre la terapia farmacologica a chi fuma più di dieci
sigarette al giorno o che risultino fortemente dipendenti al test di Fagerstom (con un punteggio uguale o maggiore a 5).
Come approfondire il counseling e le altre tecniche per ridurre i rischi del fumo
È da poco online, sulla piattaforma Consulcesi Club, il corso di formazione ECM “Fumo e nicotina: fattori di rischio per la salute orale”. Il corso tende ad affrontare le problematiche legate al consumo di tabacco a livello del cavo orale e analizza le attuali evidenze scientifiche legate al binomio fumo e salute
orale/gengivale. Vengono poi analizzati diversi aspetti di counseling sanitario e messe in rassegna le evidenze scientifiche relative ai nuovi dispositivi (sigarette elettroniche o strumenti a tabacco riscaldato).
Particolare risalto viene dato all’importanza del lavoro del team odontoiatrico, il quale può giocare un ruolo molto importante nella prevenzione dell’abitudine al fumo. Esistono infatti diverse evidenze scientifiche che suggeriscono come gli interventi in questo ambito siano efficaci e poco costosi, con un guadagno in
salute nel breve periodo e, a lungo termine, con una importante riduzione delle spese di assistenza per le patologie correlate al fumo.
Responsabile scientifico del corso è Paolo G. Arduino, professore associato di Malattie Odontostomatologiche all’Università di Torino e dirigente medico di primo livello presso la Dental School di Torino.

Consulcesi – Massimo Tortorella

Come la mente influisce sulla salute cardiaca: la cardiofobia e il “diario del cuore”

Cuore e cervello sono fisicamente connessi e l’uno può peggiorare il funzionamento dell’altro. Vediamo in cosa consiste la cardiofobia, come
può nascere e cosa fare per contrastarla

Mente e cuore parlano e si influenzano a vicenda. E non solo metaforicamente, come capita spesso in poesie o canzoni, ma anche a livello fisico: «Il cervello dalla corteccia si collega a un network neuronale molto diffuso e piuttosto complesso. Questo network neuronale, a sua volta, si collega a livello del midollo
allungato sia ai nuclei simpatici che ai nuclei parasimpatici attraverso delle fibre postgangliari. I nuclei simpatici, attraverso un collegamento gangliare nella colonna vertebrale, si collegano al ganglio toracico e ai gangli intrinseci del cuore», spiega la professoressa Maria Cristina Gori, docente di Neurologia presso
l’Università Sapienza di Roma. «Tutti questi gangli e intrecci vanno a innervare i vasi attraverso il plesso coronarico. Formano così un vero e proprio viluppo, in cui tutte le fibre si mischiano tra loro, creando un plesso sinciziale intorno ai vasi e andando a influenzare la componente elettrica del cuore e la parte
contrattile del muscolo cardiaco. Tutto ciò accade tramite l’azione di venti-venticinque neuromediatori diversi, che interagiscono tra loro».
Quella fin qui descritta è la cosiddetta connessione discendente. Per quanto riguarda, invece, la connessione ascendente, «il network neuronale attraverso il sistema simpatico risale dai gangli toracici e fa gli stessi relais in senso inverso. In questo modo, il cuore informa il cervello di quello che succede. Quindi,
l’effetto descritto non si sviluppa lungo l’asse cervello-cuore, bensì lungo quello inverso cuore-cervello. La stessa cosa avviene a livello dei gangli intrinseci del cuore, che vengono informati dalla periferia su ciò che accade e, successivamente, procedono per una mediazione attraverso un circuito di feedback locale, con il sistema parasimpatico ascendente che risale verso il cervello attraverso il ganglio nodoso». Appare dunque certo che cuore e cervello sono, da un punto di vista funzionale, organi comunicanti. Ma in
che modo il cervello può influenzare, in maniera negativa, il comportamento del cuore e viceversa?

Che cos’è la cardiofobia e come può essere gestita
La cardiofobia è un tipo di ipocondria molto particolare. Mentre il paziente ipocondriaco vede, in qualsiasi segnale proveniente dal suo corpo, il sintomo di una qualunque malattia, il paziente cardiofobico ha paura di subire un’aritmia maligna, un infarto oppure un ictus. Ciò comporta che il soggetto vive ogni segnale associabile all’area cardiaca (un’extrasistole, una tachicardia legata all’attività fisica o un dolore in area toracica, un capogiro, ecc.) come l’emergere di un pericolo imminente. A causa di questa percezione di paura, nel paziente si attivano i meccanismi dell’ansia che, a loro volta, aumentano i parametri
neurofisiologici e la sensazione dei sintomi. Il paziente si infila così in una spirale viziosa di ansia, che può sfociare in un attacco di panico conclamato.

Come gestiscono i pazienti cardiofobici le paure?
Le strategie attuate dai pazienti cardiofobici per gestire le loro paure sono diverse:
•Controllare compulsivamente la frequenza cardiaca: i pazienti arrivano a misurare la propria frequenza cardiaca decine di volte al giorno, ogniqualvolta non si sentono bene, oppure per assicurarsi che tutto stia andando per il meglio. In questi soggetti, il solo fatto di controllare il polso può riavviare la spirale di ansia;
•Evitare l’attività fisica: si va dalla scelta di evitare la palestra fino, nei casi più gravi, a non fare più le scale, a prendere l’auto e a non fare più il minimo movimento. Tutto ciò per scongiurare il presentarsi della tachicardia, che dal paziente viene interpretata come pericolosa;
•Effettuare controlli medici molto frequenti: solitamente, questi pazienti tempestano il cardiologo di telefonate, anche spedendogli gli elettrocardiogrammi;
•Recarsi con grande frequenza in Pronto soccorso;
•Fidarsi di dottor Google: questi pazienti consultano internet, strumento che potrebbe peggiorare la loro ossessione, e questo vale per ogni forma di ipocondria.

Come si genera una cardiofobia?
La genesi di una cardiofobia può essere varia. Può trattarsi di persone che hanno avuto un problema cardiaco personale oppure che hanno assistito una persona cara con un problema cardiaco. Alla base della cardiofobia c’è spesso una comunicazione medica incauta o involontaria; oppure, un effetto nocebo
(l’opposto dell’effetto placebo), per cui una comunicazione medica può gettare il seme del dubbio nel paziente e, se trova terreno fertile, diventare una condanna. Di seguito le più comuni comunicazioni che possono gettare il seme della cardiofobia e farlo crescere nel paziente:
•Evocazioni negative: il linguaggio medico ne è pieno. I medici dovrebbero usare con più cautela termini come morte, lesione, peggioramento, infarto, aritmia;
•Medicalese: il linguaggio tecnico-specialistico è un registro comunicativo che, non essendo facilmente comprensibile, spesso crea distanza, generando ansia e spingendo nella maggior parte dei casi il paziente a non chiedere spiegazioni al medico;
•Comunicazione catastrofizzante: quando il medico trasmette una comunicazione a puro titolo informativo, magari con intento rassicurante, questa azione, involontariamente, può gettare il seme del dubbio, diventando per il paziente una condanna. Per fare un esempio, un medico può dire a un paziente che il suo rischio di infarto è molto basso o che la possibilità che si verifichi un’aritmia maligna è veramente minima.
Su un piano logico-razionale, questa comunicazione dovrebbe essere rassicurante, ma se diciamo che il rischio di infarto è basso, stiamo implicitamente dicendo che quel rischio di infarto c’è e, dunque, non è nullo. In determinati pazienti questo è sufficiente a gettare il seme del dubbio;
•Colpevolizzazione: viene generata da frasi del medico sul tipo «Se solo avesse fatto», «Se solo non avesse fumato». Il senso di colpa può accentuare l’ansia dei pazienti e incentivare la presenza di una cardiofobia.

Prescrizione di farmaci e ulteriori accertamenti
Sono molti i casi di pazienti a cui sono stati prescritti farmaci (soprattutto beta-bloccanti, spesso con l’intendo di calmare la tachicardia o l’extrasistole) o esami medici di approfondimento per valutare la patologia, nella speranza di rassicurarli. Tuttavia, questo spesso produce un effetto paradossale: il paziente
inizia a pensare, infatti, che se il medico prescrive un farmaco o un esame significa che crede che ci sia qualcosa che non va. Rassicurare un soggetto ipocondriaco è un’impresa difficile, se non quasi impossibile, e la rassicurazione, se si riesce a trasmettere, dura comunque molto poco. Alcuni pazienti hanno addirittura paura a prendere il farmaco prescritto dal medico, per timore che interferisca con il loro stato di salute, di cui sono già estremamente preoccupati.

Come gestire una cardiofobia? Il “diario del cuore”
Una manovra molto spesso utilizzata in terapia strategica è quella del cosiddetto “diario del cuore” e può essere prescritta da qualunque medico. Questa strategia è contenuta nell’ebook formativo (3 crediti ECM) “Cuore e psiche: come la mente influisce sulla salute cardiaca”, disponibile sulla piattaforma Consulcesi
Club (responsabile scientifica del corso è proprio la professoressa Gori). La terapia va a impattare direttamente sul controllo compulsivo della frequenza del ritmo cardiaco, molto presente nei pazienti cardiofobici. Il medico, non potendo chiedere ai pazienti di smettere di comportarsi in un certo modo può
invece dire loro che fanno bene a controllarsi e che, anzi, devono farlo ancora di più. Il medico può, dunque, prescrivere al paziente una nuova prassi da seguire nei controlli giornalieri: a ogni ora del giorno, per cinque minuti, deve interrompere le sue attività e misurare il battito manualmente per tre volte, intervallando con un minuto di pausa. Deve poi scrivere le misurazioni e portare tutto al medico. Con questa manovra il medico si sta sintonizzando con la percezione del paziente, il quale, perciò, sarà più disposto a fidarsi di lui.
Inoltre, in questo modo il medico spinge il paziente a ristabilire un contatto percettivo con il suo polso. È, infatti, importante che faccia la misurazione manualmente e non con strumenti tecnologici. Ciò perché questi pazienti spesso hanno il terrore di percepire il proprio polso e, nel ristabilire una familiarità con le proprie sensazioni, abbassano i livelli di ansia. Spesso facendo tre misurazioni seriali i livelli di ansia si abbassano e, quindi, diminuiscono anche le misurazioni, provocando un effetto calmante sul paziente. C’è poi da tenere conto dell’effetto saturazione: sono talmente tante le misurazioni prescritte dal medico
che il ritmo provoca nel paziente un’avversione nei confronti della manovra, spingendolo a sperare in un allentamento della prescrizione, che gradualmente dovrà passare a tre misurazioni ogni due ore, fino a eliminarle del tutto.

Consulcesi – Massimo Tortorella